martedì 29 giugno 2010

Italo Calvino, Il visconte dimezzato

È la storia di un visconte che partecipa, assieme allo scudiero Curzio, a una guerra di religione alla fine del Seicento in Boemia. Il protagonista viene tagliato in due parti speculari da una palla di cannone.
Prende il via così la vita parallela delle due metà di Medardo. Inizialmente ritorna al paese solo il lato maligno, capace di terribili atrocità: provoca la morte del padre, tenta di uccidere il nipote, condanna a morte decine di uomini solo per aumentare il numero dei fuochi fatui al cimitero. Il Medardo “cattivo” però rivela anche inaspettate doti di umorismo e di realismo, quasi Calvino volesse giustificare in qualche modo i suoi comportamenti.
Successivamente fa ritorno al paese natio anche l’altra metà del visconte che si comporta in modo totalmente opposto: gentile, altruista, buono, o meglio “buonista”, caratteristiche che però vengono esasperate fino alla nausea.
I "due" protagonisti si innamorano della stessa donna, la pastorella Pamela e, dopo varie vicissitudini, giungono a un duello che finirà con una ferita contemporanea proprio nel punto della precedente "divisione". Il dottore riuscirà a ricongiungere le due metà e a ripristinare il quieto vivere.

Nel corso del romanzo è piacevole notare che quasi tutti i personaggi esprimono una certa ambiguità di fondo, sono incompleti, strani, ma sinceri: il codardo e inetto dottor Trelawney, genio del tressette, i lebbrosi di Pratofungo, poveri, moribondi, ma capaci di continui festeggiamenti che spesso sfociano in vere e proprie orge, mastro Pietrochiodo, uomo onesto e benevolo inventore però di crudeli strumenti di tortura e morte.

A Calvino, infatti, interessava primariamente «il problema dell’uomo contemporaneo (dell’intellettuale, per essere più precisi) dimezzato, cioè incompleto, “alienato”»; e proprio a tal fine, ha dimezzato il suo personaggio «secondo la linea di frattura tra “bene-male”», perché ciò gli «permetteva una maggiore evidenza di immagini contrapposte, e si legava ad una tradizione letteraria già classica (per es. Stevenson)». D’altra parte — sottolinea lo stesso scrittore — «i miei ammicchi moralistici… erano indirizzati non tanto al visconte quanto ai personaggi di cornice, che sono le vere esemplificazioni del mio assunto: i lebbrosi (cioè gli artisti decadenti), il dottore e il carpentiere (la scienza e la tecnica staccate dall’umanità), quegli ugonotti, visti un po’ con simpatia e un po’ con ironia (che sono un po’ una mia allegoria autobiografico-familiare, una specie di epopea genealogica della mia famiglia) e anche un’immagine di tutta la linea del moralismo idealista della borghesia».
E così, questo continuo parallelo tra comportamenti e caratteristiche contrapposte rafforza ancora di più il messaggio dell’autore che non condanna e, simultaneamente, non giustifica a priori nessun accadimento e nessuna azione. Rende volutamente confusi i confini tra bene e male, dimostra che in ogni azione sono le sfumature, le ragioni, i comportamenti a determinare il senso dell’azione stessa e che, non sempre, le regole predeterminate devono considerarsi assolute e definitive. Ci dice che nessuno è perfetto, antico detto, forse troppo poco considerato, che tutti hanno le proprie “miserie” e “squallori”, debolezze però non necessariamente correlate alle inclinazioni personali.

Altra caratteristica saliente dell’opera è la leggerezza che vi si respira, sia riguardo al linguaggio, semplice e scorrevole, sia relativamente al costante accento ironico che impedisce a Calvino di essere macabro di fronte alle crude nefandezze del Medardo maligno o lacrimevole e retorico raccontando della zuccherosa e lagnosa metà “buona”.

L’autore, aiutato dal contesto fantastico, stupisce anche per l’estrema attualità degli argomenti: durante la lettura, tra le fessure di humour e spirito, affiorano spontanei interrogativi morali, riflessioni e domande probabilmente vecchie come il mondo, ma egualmente importanti per ognuno nell’ambito del proprio microcosmo. Al tempo stesso, la sua simpatia e la sua fantasia non vengono mai meno, bensì si esprimono anche in piccole sottigliezze, quali la scelta di nomi come Pratofungo per il villaggio dei lebbrosi o Pietrochiodo per il mastro del paese.

D’altronde, per Calvino, come per Bertolt Brecht, è proprio il divertimento la prima funzione sociale di un’opera letteraria o teatrale. E, fermamente convinto che il divertimento sia una cosa seria, a uno studente che lo interroga sul suo libro, Calvino risponde così: «Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso, e possibilmente anche gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra».

D’altra parte, «è chiaro che — dice con la solita razionale ironia l’io-narrante de Il visconte dimezzato — non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo».

Editore: Mondadori
Anno: 1993
Prezzo: 8,50 €
Pagine: 100



Inizio lettura: 29 giugno 2010

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